Ieri ci ha lasciati un caro amico e nel petto ho un macigno al posto del cuore.
Amo il mio lavoro, di solito inizio la giornata pensando alle cose che dovrò fare, poi mi vesto, parto e via. In questi giorni invece dormo agitata, mi sveglio angosciata, mi alzo, mi vesto e con il terrore nel cuore parto e via.
La sveglia suona, apro gli occhi e penso a quanti morti vedrò oggi. Non ho assolutamente voglia di alzarmi. Mi dico “magari stamattina sarà diverso”, mi faccio coraggio, salgo in macchina e vado al lavoro. Vedo lungo la strada gente che passeggia (alle 6.30 del mattino!) mano nella mano, senza mascherina e altre persone che portano a spasso il cane o fanno jogging… e un moto di rabbia mi prende. Vorrei fermami, urlare, mandarli a casa, ma non ho tempo, chi ha fatto la notte mi aspetta con ansia per il cambio di turno, perciò proseguo.
Arrivata in ospedale mi cambio, mi metto un paio di guanti, una mascherina chirurgica (non abbiamo le FPP2 o FPP3, quelle le usano solo i tecnici che vanno a fare gli esami al letto dei pazienti), mando a casa la collega della notte e faccio un rapido saluto ai tecnici che mi accompagneranno nel corso della giornata.
Chiamo i due colleghi del Pronto Soccorso per sapere com’è la situazione e l’internista, con voce sconsolata, mi dice: «tutto nella norma, anche ieri sono morti 16 pazienti Covid-19 in attesa che si liberasse un casco per l’ossigeno».
Assurdo a pensarci; fino al mese scorso neanche sapevamo cosa fosse la C-PAP, nel senso che solo alcuni pazienti cronici con problemi respiratori gravi ne avevano bisogno, adesso invece vorremmo averne milioni a disposizione e invece non ce ne sono più, come le mascherine.
Cerco di confortarla e le dico: «oggi andrà bene, incominciamo». Così si parte edinizio a refertare le radiografie del torace che i tecnici stanno già producendo: “Covid, Covid, Covid, Covid, Covid…” e vado avanti così tutta la mattina con qualche interruzione per controllare un paziente e un esame o per eseguire la TC del torace per qualcuno che è peggiorato o per qualcuno che forse va meglio.
Nessuno è migliorato, perciò nessuno può essere estubato e nessuna C-PAP può essere liberata. In PS si accumulano pazienti che attendono l’ossigeno, ma attenderanno ancora a lungo e alcuni, lo so, non ce la faranno. Proprio come la donna di 46 anni che ho visto passando dal corridoio del PS: quando chiedo notizie mi dicono che è già morta.
Non mi soffermo troppo, non ne ho il tempo, hanno tutti bisogno di risposte veloci, così proseguo e referto la radiografia di un ragazzo di 25 anni. “Polmonite interstiziale bilaterale, verosimilmente da Covid”: un altro giovane in piena salute, con due polmoni completamente bianchi (di solito sono neri), perché non c’è più nulla di sano. Chiamiamo il rianimatore, il ragazzo va intubato.
È ormai mezzogiorno e una tecnica mi si avvicina e mi dice: «Dottoressa, mi sembra che stamattina ci fosse un torace in miglioramento, l’ha già visto?”. Le sorrido e rispondo: «Si, l’ho visto, ma in realtà i toraci in miglioramento sono due!». Vorremmo batterci il 5 ma non possiamo; nessun contatto è auspicabile se non strettamente necessario. Ci strizziamo l’occhio e sorridiamo ancora: forse due persone in PS oggi avranno una chance.
Dopo questa bella notizia mi faccio coraggio e chiamo la Rianimazione per avere notizie di Luca.
Luca era con noi in prima linea fino a due settimane fa. Una mattina mi dice «Claudia, mio papà è ricoverato e io non mi sento molto bene. Se faccio una radiografia me la guardi?». Gli dico: «Certo, facciamola subito!». Radiografia negativa per fortuna, ma lo mandiamo a casa in malattia, non si sa mai. Dopo qualche giorno, mi chiama e mi dice: «Mio papà è peggiorato e lo sono anch’io. Cosa faccio?». Gli dico: «Facciamo una TC, poi vediamo». Facciamo la TC: “Polmonite interstiziale bilaterale con iniziali segni di consolidamento”. È grave.
Viene in Pronto Soccorso e lo ricoverano. So che non lo rivedrò più fino a guarigione avvenuta. Dopo un paio di giorni si libera una C-PAP, ma lui è ulteriormente peggiorato. Iniziano una terapia sperimentale; mi dicono che lui è ottimista, ma continua a peggiorare. Dopo una settimana di macchinario infernale (con la C-PAP è la macchina che respira per te e tu hai la terrificante consapevolezza di ogni atto respiratorio) lui si dispera e chiede aiuto, ma nessuno sa come aiutarlo. Intanto, in un altro ospedale, suo papà muore. Siamo tutti in crisi: nessuno della sua famiglia ha più potuto vedere il padre dopo il ricovero, proprio come nessuno ha più visto Luca. So che questo per lui sarà un duro colpo e infatti è così.
Incontro Monica, sua moglie, che mi dice:«“Dicono che è stabile, forse inizia a migliorare», ma non faccio in tempo a gioire che le arriva un sms sul cellulare. Lei piange e mi mostra il telefono, è un messaggio di Luca: «Sono in crisi respiratoria, mi intubano! Ti amo». Piango anch’io, so cosa vuol dire: nessuno a oggi è guarito dopo essere stato intubato e solo due persone sono sopravvissute all’intubazione. È un messaggio di addio e il mio cuore si ferma per qualche secondo. Penso a Luca, a tutti i momenti che abbiamo condiviso e a come ridevamo quando parlavano del Covid dicendo che era solo un’influenza. Ma quale influenza uccide uomini e donne di ogni età, senza comorbilità e spesso sportivi? Passo la notizia agli altri tecnici, che ammutoliscono: «Ma come è possibile? Luca è forte, sta bene» ci guardiamo e ci diciamo: «Ce la farà!».
Chiamo la Rianimazione e chiedo notizie di Luca. Pausa di silenzio. Il rianimatore si schiarisce la voce e mi dice: «Abbiamo dovuto metterlo prono perché non respirava, ma anche così non satura abbastanza. Non voglio perdere le speranze, ma temo che possa non farcela».
Riaggancio e sento un altro tuffo al cuore. Mi dico che lui ce la farà: è giovane, forte, sta facendo la famosa terapia sperimentale di cui tutti parlano, deve farcela!
Ho bisogno di notizie positive, così chiamo in medicina per avere notizie del papà di Stefano, un amico. Mi risponde l’internista. Pausa di silenzio. Si riprende e mi dice: «Sta andando male. Potresti avvisare i parenti? Non credo che ce la farà!». Resto gelata: «Come male? Non era stabile? Va bene, avviso io i parenti» (lui non ha il tempo materiale di chiamarli e di essere contemporaneamente delicato nel dare la notizia).
Mi dispero, ma non può finire così questa giornata! Allora chiamo Eliana, la tecnica che mi ha accompagnato tutto il giorno. So che sta salendo in medicina per un torace al letto, allora provo a chiederle un favore enorme: le chiedo di portarsi il cellulare (non si possono portare oggetti personali in reparto) e di mostrare un video al papà del mio amico. Lei va e al ritorno mi sorride: «Dottoressa, ha riconosciuto tutti i nipoti! Chiede di dire loro che gli vuole bene! Ha mandato un bacio a ognuno e manda un saluto speciale alla moglie, al figlio e ai fratelli!». «Grazie Eli, hai fatto un regalo enorme a una famiglia intera, te ne sono grata!». Vorrebbe abbracciarmi ma non può… mi sorride.
Un po’ risollevata continuo il lavoro: Covid, Covid, Covid, Covid… e vado avanti così fino alla fine del mio turno.
Decido di chiamare a casa perché so che le mie sorelle nei giorni scorsi hanno avuto un po’ di febbre, ma la sorella più piccola mi precede. Rispondo e capisco subito che c’è qualcosa che non va. Lei sta piangendo e mi dice: «Tino non ce l’ha fatta!».
Tino è uno dei migliori amici di mio papà. Lo conosco da sempre e l’ho sempre considerato un omone invincibile e forte. La stazza contribuisce a renderlo un po’ sovrumano, da bambina mi sembrava l’uomo più grande del mondo…e anche il più buono. Mi divertivo a giocare con lui, aveva tanta pazienza e poi quando venivano a trovarci lui ed Edo con le mogli era sempre festa. Quando mio papà è morto, nel 2011, loro sono rimasti a far parte della nostra famiglia e sono diventati molto più parenti dei nostri veri parenti. Sono dei papà bis, perciò li adoriamo e facciamo il possibile per incontrarci spesso e per organizzare cene o pranzi in compagnia.
Purtroppo, qualche anno fa ha subito un intervento che lo ha un po’ indebolito, ma è tornato a essere il Tino sorridente e giocoso di sempre. Quando Giusy, sua moglie, mi ha chiamato qualche giorno fa per dirmi che Tino era stato ricoverato per Covid, non ci volevo credere. Giusy voleva che chiamassi l’ospedale: era martedì e da domenica non aveva avuto più sue notizie. Io però sapevo che nessuno mi avrebbe dato retta: sono un medico, ma in un ospedale diverso dal mio in questo momento sono meno di un parente. Doveva trovare un’altra strada… e così ha fatto. Una sua amica infermiera che lavora lì ha iniziato a mandarle qualche messaggio: «E’ stabile. È sotto C-PAP. Per ora resiste».
«Tino è morto?» ripeto ad alta voce. Si.
Un altro tuffo al cuore. Questa volta le lacrime sgorgano copiose. I tecnici mi guardano e vorrebbero aiutarmi, ma nessuno può farlo: un amico mi ha lasciato e non lo vedremo più.
Passo mezz’ora a piangere e a pensare a cosa avrei potuto fare, ma da tutte le parti sento gente che continua a ripetermi: «Non potevi fare niente, davvero! Non potevi proprio!». Questo non mi consola, ma so che devo farmi forza. Asciugo le lacrime e continuo a lavorare: Covid, Covid, Covid…
Finalmente il turno finisce e con un enorme peso sul cuore mi cambio. Salgo in macchina e mi incammino verso casa. Vorrei fare la spesa (è dai primi di marzo che non entro in un supermercato), ma vedo code di persone con i carrelli in mano e desisto. “Non capiscono niente” mi ripeto tra me e me, ma non ho la forza né la voglia di discutere. Passo oltre e vedo sui marciapiedi persone che passeggiano col cane, che vanno a fare la spesa, che fanno jogging o che semplicemente camminano ai bordi della strada.
Sono arrabbiata, ma anche avvilita. So che alcuni di loro arriveranno presto in ospedale a chiedere aiuto, a mettere a rischio le nostre vite e quelle dei loro cari, ma piano piano le persone ai bordi delle strade spariscono e il mio pensiero torna a Tino: non lo vedrò più.
Dott.ssa Claudia Martina