Le parole di Elena Galassini
Sono fortunata: faccio un lavoro che ho scelto, che amo e che in questo momento è utile. Vivo a Milano e sono un’anestesista rianimatore, per le maxi-emergenze riceviamo un addestramento particolare e per Expo avevamo fatto un bel ripasso delle procedure. È tuttavia diverso affrontare una pandemia che ha dimensioni e velocità di sviluppo che si discostano molto da quanto è possibile apprendere dalla letteratura; affrontare agenti patogeni sconosciuti richiede un impegno solo in parte quantificabile a priori in termini di durata e d’impiego di risorse e nessun piano può prevedere tutte le variabili.
Grazie a qualche esperienza all’estero (Germania, Zaire, Bangladesh, Mongolia), ho avuto modo di lavorare in condizioni di relativo disagio e con risorse limitate con team diversi. Tra le competenze extra, l’insegnare metodi di simulazione in Crisis Resource Management, Non Technical Skills e l’attività subacquea possono aver fatto la differenza per affrontare l’emergenza con spirito positivo e combattivo.
Scoppiato l’allarme, il primo istinto per molti di noi è stato quello di partire e dare una mano in zona rossa; immediatamente dopo, lo sforzo è stato quello di cercare di organizzarsi per reggere quello che sarebbe diventata a breve la nostra realtà in scala più grande. La sensazione è passata quindi da un senso d’inutilità, impotenza e inadeguatezza, all’ansia della corsa a pianificare percorsi e aggregare team multidisciplinari che potessero fare fronte all’ondata. Un’occasione unica, oltre che una necessità, di fare lavorare insieme professionisti di diverse specialità che si sono messi all’opera per convertire reparti tradizionali a Covid.
Ci sono stati giorni in cui molti non sono tornati a casa dall’ospedale e hanno fatto di tutto, spostare letti, arredi, farmaci, inventariare materiale, chiedere e ricevere aiuto, mentre l’afflusso aumentava in modo esponenziale. Esperienza simile a quanto vissuto all’estero in Bangladesh e Zaire dove sai che, fino all’arrivo di nuovi aiuti, puoi contare solo su quello che hai con te in termini di uomini e mezzi. Un’impegnativa sfida mentale e umana, per chi è abituato a pensare di lavorare in un ambiente nel quale le risorse siano proporzionate alle necessità.
Un impegno gravoso è ancora quello fisico: lavorare bardati con tute idrorepellenti, doppi calzari, tre paia di guanti, maschera e visiera, richiede un grande autocontrollo; ogni manovra costa fatica e deve essere pensata per ridurre al minimo il rischio per il paziente e per gli operatori presenti, oltre a quello di contaminazione quando ci si sveste. Qui il paragone con l’attività subacquea è evidente: immaginare di fare un’immersione in profondità, dove la vita del tuo compagno dipende da te, con limitazioni da fame, sete, caldo e resistenza, ti fa agire più razionalmente e l’aver imparato a mante-nere ordine mentale e rigore nelle procedure mi ha aiutato molto.
In pochi giorni l’Ospedale ha sconvolto la propria fisionomia, modificando percorsi e reparti in base alle esigenze emergenti, richiedendo un grosso sforzo di adattamento quotidiano, in un momento che poteva essere di disorientamento collettivo. La paura di non poter avere il materiale necessario è stata confortata dal supporto delle tante donazioni: in questo senso il nostro Distretto Rotary ha dato il meglio di sé fornendo attrezzature e mezzi di protezione in momenti particolarmente critici (l’arrivo di respiratori e mascherine la vigilia di Pasqua è stato provvidenziale) per cui tutti vi siamo particolarmente riconoscenti.
Un altro impegno è stato quello di aggregare figure professionali diverse, cercando di motivare tutti, rassicurarli e trarre il meglio da ciascuno di loro. L’addestramento teorico e sul campo ha richiesto molta energia e fiducia reciproca: abbiamo formato specialisti di altre branche per gestire metodiche di ventilazione assistita nei reparti a bassa intensità e credo che questa esperienza sarà un bagaglio prezioso sia per i singoli, che hanno scoperto doti personali impensate, sia per esplorare una modalità di lavorare diversamente in futuro. Gli anni di Rotary hanno sicuramente fatto scuola per me sotto quest’aspetto.
L’isolamento affettivo è sicuramente la parte più pesante da affrontare: per i nostri pazienti abbiamo cercato di mantenere il più possibile i contatti con le famiglie per via telematica. Se fino a poco tempo fa la terapia intensiva era un reparto poco conosciuto, i recenti accadimenti hanno violentemente portato alla ribalta luoghi, persone e attrezzature identificate come cardini della terapia per l’epidemia, creando alte aspettative e proiezioni.
L’emergenza ha indotto il sistema a realizzare trasferimenti improvvisi di pazienti all’interno del territorio regionale e nazionale e, contemporaneamente, ha imposto la limitazione degli spostamenti e accessi da parte di tutta la rete di affetti, che anche tutti gli operatori sanitari stanno subendo. Questa realtà rende per i familiari ancora più difficile vedere il reparto di terapia intensiva come qualche cosa di vicino e facilmente comprensibile e per i sanitari ancora più ardua la comunicazione per limitazioni di tempo, di strumenti e coinvolgimento emotivo. Gli spazi ricavati a fatica per permettere ai familiari la giusta privacy non solo per ascoltare ma anche per parlare, chiedere e piangere, sono attualmente indisponibili, nel sovvertimento completo delle strutture ospedaliere e nella necessità di tutela della salute pubblica. Condurre una conversazione telefonica pone ai familiari dei limiti notevoli nel permettere di capire cosa sta accadendo, cos’è avvenuto al loro caro e cosa stiamo facendo come équipe.
Mai come in questi giorni si è enfatizzato il lato “umano” del personale sanitario. Informare i familiari dell’eventuale decesso di un loro caro è sempre emotivamente difficile; nel caso specifico, considerando l’età media e la velocità di evoluzione della patologia, contiene frustrazione, senso d’impotenza, disagio, dolore, rabbia. Spesso non sappiamo quali parole usare e soprattutto come contenere lo stato emotivo, trattandosi di pazienti che sono talvolta anche nostri colleghi.
Tutti noi abbiamo dovuto fare i conti con la paura, non solo di ammalarci e morire noi, ma soprattutto di costituire un pericolo per le nostre famiglie, ed è tuttora così. La maggior parte dei medici e infermieri non vede i propri familiari da quasi due mesi e sa che potrebbe non vederli più. Eppure, quasi tutti si sono messi in gioco: nessun eroismo, affrontare l’emergenza ed esporci a rischi sono parte del nostro mestiere quotidiano, semmai eroiche sono le nostre famiglie, alle quali anche in questa occasione abbiamo sottratto una parte di noi in favore degli ideali in cui crediamo.