Sabato 29 settembre, un gruppo di rotariani decide – dopo la mattinata istituzionale di formazione – di continuare la giornata visitando la miniera di Gaffione a Schilpario.
Sicuramente molti hanno letto libri, sentito storie o racconti, visto film o documentari sulle miniere ma la realtàà, a volte, supera anche la più fervida immaginazione.
Un’aria fredda esce dall’antro della montagna e come per magia, ignari di quel che ci si può aspettare, con un simpatico trenino ci avventuriamo all’interno, percorrendo i primi 200 metri di uno dei tanti tunnel lunghi circa 60 chilometri.
Un breve percorso che ci riporta, però, indietro nel tempo… agli anni ‘30.
Certo le miniere hanno più di 2000 anni, già all’epoca dei Romani venivano utilizzate per estrarre il ferro per forgiare le spade.
All’interno della miniera la temperatura è costante ed è di 7 gradi, si incontrano fiumi sotterranei ma soprattutto cunicoli stretti, sentieri, scalette in legno appoggiate alle “bocche”, “stanze” alte anche più di 10 metri.
Tutto quello che si apre innanzi a nostri occhi è opera dell’uomo.
La guida, esperto speleologo, con molta semplicità ma con chiarezza, ci spiega la vita dei minatori e di quei giovanissimi ragazzini che all’età di soli 8 anni scivolavano nei cunicoli più stretti per raggiungere le profondità della montagna, per poi inerpicarsi a mani nude sulle pareti scavate nella roccia portando sulle spalle fino a 30 chili di pietre contenenti i minerali che poi sarebbero stati utilizzati soprattutto per le armi e per il materiale bellico.
La paga, misera, era di circa una lira e mezzo al giorno, per un lavoro che poteva anche raggiungere le 12 ore giornaliere.
La somma non era neppure sufficiente per comperare un salame o una formaggella che costavano dalle due lire e mezzo alle tre lire.
Vediamo e proviamo le perforatrici meccaniche utilizzate negli ultimi anni, pesanti e molto rumorose e che tanti danni provocavano alla salute dei minatori.
Vediamo le travi in legno che puntellavano le pareti e che servivano per segnalare, con i loro scricchiolii gli eventuali cedimenti strutturali della roccia e, infatti, un detto diceva: “quando il legno canta, il minatore scappa”.
Viviamo l’ebrezza di essere illuminati dalla lampada dei minatori, che funzionava a carburo ed acqua.
Quando, ad un tratto, la luce viene meno e ci troviamo nel buio più assoluto ci rendiamo immediatamente conto che non è neppure possibile ritrovare il sentiero percorso pochi istanti prima e, infatti, i minatori avevano l’obbligo di lavorare in coppia con due lampade perché se una si fosse spenta c’era pur sempre l’altra a rompere il buio.
E solo allora si comprende quanto fosse veramente faticoso lavorare in quelle condizioni estreme.
Alla fine del percorso ammiriamo una mostra fotografica che ci riporta indietro nel tempo.
Ma se chiudiamo gli occhi, ancora ora, possiamo immaginare quei giovani ragazzi che salgono e scendono nel ventre della montagna, con una gerla sulle spalle e con un piccolo lumino ad olio nelle mani.
Per la misera paga di una lira e mezza al giorno.
Federico Dotti