L’importanza di entrare in empatia con i destinatari dei service
Caro Giuseppe,
sono sul treno, di rientro dal lavoro, e da giorni tento di scrivere l’ennesimo, formale articolo per la nostra newsletter. Ho abbozzato qualche riga, cancellato svogliatamente delle parole, fissato con tedio il foglio pasticciato, ma non ho concluso granché. La verità è che, per una volta, mi piacerebbe essere spontanea, meno formale e fare ciò che veramente sento. Ecco perché ho deciso di affidare a un pezzo di carta qualche pensiero.
La disabilità nella nostra società fa paura. La diversità nella nostra società fa paura. E allora ti chiedo, insegnami a non averne più.
Ogni volta che mi è capitato di confrontarmi con persone disabili mi sono sempre trovata a essere, un po’ come tutti, in imbarazzo. Non sai come comportarti, non sai cosa dire, non sai che domande fare, non sai che parole utilizzare. Sarò troppo invadente? Troppo sarcastica? Troppo misurata? Insomma, come posso essere me stessa senza rischiare di ferire? Ad esempio, la prima volta che ti ho conosciuto non sapevo come presentarmi. Di solito il mio biglietto da visita è un’energica stretta di mano, un sorriso composto ma raggiante e un pungente sarcasmo. Ma in periodo di pandemia non potevo toccarti, il mio sorriso composto ma raggiante tu non lo avresti potuto vedere, il mio pungente sarcasmo non sapevo, anzi, non so quanto possa essere utilizzato con una persona disabile.
E allora, come faccio a farmi conoscere? Come faccio a conoscerti? A trasmetterti le emozioni che normalmente affido a sguardi complici e linguaggio non verbale?
Ecco, vedi, ad esempio, si può dire disabile? Perché quando a me dicono che sono mediterranea sarà anche vero, per carità, ho fianchi larghi e vita stretta, ma questo termine è pure sempre un sinonimo di chiattona.
Come fa a non infastidirti l’epiteto disabile? Magari adesso l’ho fatto paragonando la tua disabilità a un mio difetto fisico? Magari non è politicamente corretto? Cosa è permesso dire a un cieco? Perché mi è capitato spesso di dover, meglio di voler, pesare le parole con te, di evitare i verbi guarda, vedi. O di non renderti partecipe di un qualcosa che stava succedendo attorno a noi perché non sapevo se ti facesse piacere che te lo spiegassi. Come faccio a sapere se questa cosa ti fa sentire diverso.
Forse quel che manca nella nostra società è una cultura della disabilità, una normalizzazione di condizioni che non sono e non dovrebbero essere ritenute sinonimo di diversità. Io sono chiattoncella, tu sei cieco, Bebe Vio non ha gambe e braccia, il nostro Governatore Edoardo ha i capelli bianchi. Peraltro, analizziamo la situazione, ci sei tu: marito, lavoratore instancabile, atleta paraolimpico pluripremiato, appassionato di montagna, giocatore di baseball. E ci sono io: moglie, lavoratrice instancabile, cultrice del divano. Forse la disabile sono io.
Forse è proprio sbagliato il concetto di disabilità che ci viene rappresentato. O forse, molto più semplicemente è sbagliato l’approccio che molti di noi hanno verso la disabilità. Probabilmente dovremmo vivere con minore commiserazione questo termine, perché se tu, Lorenzo e tutti i compagni della tua meravigliosa squadra di baseball siete riusciti a gestire il dolore della consapevolezza di non vedere la profondità degli occhi della persona che amate, o le foto del vostro album di nozze, o la prima ecografia del vostro bambino, direi che io ben potrei imparare a normalizzare la vostra disabilità, abbattendo i preconcetti che mi impediscono, con serenità, di guardarti negli occhi e dirti «Giuseppe, guarda, ti stai perdendo una cosa pazzesca, ma aspetta che te la spiego io».
Elisa Serena Poletti
Troppe volte i service rotariani si limitano all’elargizione di fondi e di competenze per realizzare strutture e manufatti indispensabili per migliorare la condizione di chi ha meno fortuna e deve quotidianamente combattere con un problema fisico, la fame, la povertà, le guerre, la natura o strutture sanitarie inesistenti.
Troppo spesso non interagiamo con chi aiutiamo e ci limitiamo a valutare un progetto in modo freddo, distaccato con metodologia quasi da trattato di economia. Se investo questi fondi che risultato ottengo? Quante persone aiuto? Non sarebbe meglio fare altro, che serve a più persone?
Questo confronto a volte nasce anche tra me e un mio carissimo socio al quale anni fa venne bocciato un progetto, proprio per questo arido e freddo conto matematico di vite/costo. Gli venne detto che investire in un ospedale per curare pochi, anzi piccolissimi malati, quando in quei territori il problema maggiore era la mortalità sotto i 5 anni per denutrizione, era uno spreco di risorse. Matematicamente corretto ma umanamente atroce.
È corretto comportarsi così? Per certi versi sì, per altri no. Nel mio pragmatismo credo che a volte sia necessario diventare più umani e toccare con mano i problemi. Un bimbo affamato ha più diritti di un bambino che non può essere curato e viene lasciato morire per una semplice dissenteria, un raffreddore o altra malattia?
Ecco, il regalo che vorrei per i miei 50 anni, (saranno a maggio 2022) è vedere più coinvolgimento sentimentale tra il Rotary e le persone destinatarie dei benefici dei progetti. Se da una parte è giusto pensare in modo scientifico è altrettanto vero che si vive di sentimenti e non di numeri.
Giuseppe è un ragazzo che ho conosciuto per telefono dopo la segnalazione di una comune amica. Mi spiegò i suoi problemi, i suoi sogni, i suoi desideri. Ho visto quello che fa e come lo fa. Mi sono interessato ai suoi sport in cui eccelle, al centro addestramento cani guida e a tutta una serie di cose correlate al suo mondo, che poi è anche il mio e di tutti voi che leggete queste righe. Mi aveva incuriosito la sua forza, la sua tenacia, la sua capacità di reinventarsi una vita dopo aver progressivamente perso la vista. Ci siamo sentiti tante volte e la situazione Covid-19 ci ha impedito un incontro di persona per tanto tempo, avevamo progetti insieme, che ho inizialmente condiviso con Elisa e il suo club per una cena al buio. Una cosetta semplice che avrebbe messo in contatto rotariani e ragazzi non vedenti, capendo i loro problemi, conoscendoli da vicino, vivendo per una volta i loro limiti.
I nostri due club poi hanno intrapreso strade diverse, quello di Elisa ha deciso di supportare direttamente la sua squadra di baseball e di stringere un legame umano, il nostro ha deciso di restare in disparte attendendo il momento di conoscerlo e di svolgere il service. E poi? E poi succede l’impensabile. Una sera, per caso lo incontro e tutte le domande che si è posta Elisa nelle righe qui sopra le ho vissute anch’io e l’essere già preparato da telefonate e incontri Zoom con Giuseppe non mi ha aiutato a superare agevolmente la situazione. Cosa gli dico? Che bello vedersi o che bello incontrarsi?
Mi sono sentito in imbarazzo non solo per le parole da scegliere, ma anche per non avergli già dato l’aiuto di cui aveva bisogno per la sua squadra. Mi sono sentito in difficoltà nel riflettere sulla semplice affermazione che lui non aveva mai visto sua moglie, mentre tutti noi la stavamo vedendo lì, sorridente e innamorata al suo fianco.
Ecco, quello che dopo tanti anni di Rotary e Rotaract (ormai sono ininterrottamente 30) vorrei arrivare a vedere è il coinvolgimento umano nel nostro operare, un coinvolgimento che superi i numeri.
Andrea Brianza