Fiorentini, Lombardi, Veneti, Piemontesi e molti altri sulla “Via degli Abruzzi”

«Più là che Abruzzi»: l’espressione proverbiale messa in bocca dal Boccaccio al semplicione Calandrino nella celebre novella del Decameron (VIII, 3) ha fatto a lungo testo nella nostra letteratura, come indicazione di una terra lontana da ogni dove. Ancora una volta, in altra novella (VI, 10), la nostra regione è evocata come luogo sperduto, quando ne accenna nella predica ai villici di Certaldo l’affabulatore frate Cipolla, che racconta di un interminabile viaggio cominciato a Venezia e proseguito a lungo nel Mediterraneo e in altri Paesi fantastici, passando anche «in terra d’Abruzzi» e in luoghi più lontani ancora. Ma anche Guido Guinizzelli, quasi un secolo prima, si serve in poesia dell’espressione «e’ non è om de qui ‘n terra d’Abruzzo» (sonetto Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo) per indicare una distanza notevolissima rispetto alla sua Bologna. Si tratta veramente di un brutto scherzo giocato da un topos letterario. La sua notevole ricorrenza è, però, carica di significato, addirittura ambivalente: l’Abruzzo era sì una regione abbastanza lontana dai centri maggiori del Centro e del Nord d’Italia, e per di più marcata dall’asprezza delle strade e del clima, ma era anche terra di passaggio obbligato per tutti coloro che da quei luoghi si recassero, per vie di terra, nelle regioni meridionali e più specificamente a Napoli, il polo di maggiore attrazione nel Regno. Da area periferica o estrema, l’Abruzzo appariva, dunque, nella memoria o nell’immaginario dei viaggiatori, anche come regione strategica, inevitabile, e quindi, in qualche modo, centrale.

La moderna ricerca storica ha, infatti, dimostrato appieno il ruolo di area di primario snodo stradale che l’Abruzzo ha assunto per secoli per tutto il flusso di commerci, missioni diplomatiche, spedizioni militari, rapporti culturali che si intrecciavano tra le regioni centrali e settentrionali da una parte e il Mezzogiorno della penisola dall’altra. Questo dato fondamentale può apparire oggi inconcepibile o esagerato a chi, vivendo mentalmente sull’asse stradale peninsulare dell’Italia postunitaria, non abbia considerato una serie di dati di geopolitica e di storia economica dell’Italia tra il VI secolo e la fine del XIX secolo. I fatti da considerare sono, in estrema sintesi, i seguenti:
– la formazione dei domìni longobardi d’Italia (dal 568 in poi), che non comprendevano il Lazio pontificio (area avversaria) e nel Centro-Sud avevano le loro capitali in Spoleto e Benevento, collegate appunto da itinerari appenninici che attraversavano l’Abruzzo seguendo i solchi tra le catene montuose principali, toccando soprattutto Teramo, Penne, Chieti e Sulmona, nei cui territori si documenta, infatti, un fitto insediamento di fare;
– la formazione, in regime di frequente conflittualità con il papato, del Regno normanno, che giunse (nel 1140-44) a comprendere tutto l’Abruzzo e ne fece da allora (fino al 1860) la regione di frontiera con le Marche e l’Umbria pontificie;
– la successione sveva (1194) al Regno normanno, con il potenziamento demografico e urbano dell’area amiternina, dove sorse, a metà del Duecento, la nuova e vivace città dell’Aquila, polo di forte confronto con il potere pontificio;
– la successione angioina (1266) al Regno svevo, accompagnata dal fortissimo legame dei nuovi regnanti con Firenze (finanziatrice della spedizione di Carlo I d’Angiò): si attivarono allora intensi commerci di questa città con L’Aquila e Sulmona, per i rifornimenti della lana, della seta e dello zafferano che si producevano soprattutto in questi territori, e anche con i porti abruzzesi che ricevevano e smistavano i prodotti pugliesi;
– la successione aragonese (1442) al Regno angioino, con periodi di rinnovata intesa con Firenze e soprattutto, fatto decisamente nuovo, l’instaurarsi di legami politici e persino familiari tra i sovrani di Napoli e gli Sforza di Milano (che ebbero anche il Ducato di Bari) e di alleanze con le città emiliane (Ferrara e Bologna);
– la successione spagnola (1503-1504) al Regno aragonese, che diventò Viceregno, stretto per ben due secoli da legami con il dominio spagnolo in Lombardia.

In tutto questo tempo, e ancora nel secolo e mezzo successivo, gli itinerari più frequentati tra il Centro-Nord e il Sud evitavano il più delle volte Roma, sia per le possibili complicazioni politiche con il Papa, sia anche per l’impraticabilità delle zone malariche della Campagna Romana (la Campania romana) e la presenza in essa di un indomito brigantaggio (in parte a tratti debellato, invece, nelle regioni del Regno). A queste condizioni avverse di varia natura, esistenti sul versante tirrenico, si contrapponevano le seguenti condizioni favorevoli sul percorso appenninico e su quello adriatico:
– la catena di collegamenti con centri appenninici e adriatici molto attivi per produzioni e commerci (Perugia e le altre cittadine umbre; Rieti; Urbino, Pesaro, Ancona, Ascoli e le altre città marchigiane) prima di giungere alle montagne o ai porti abruzzesi, luoghi di rifornimento di quei beni sopra ricordati;
-la maggiore rettilineità dei percorsi stradali, che all’interno si svolgevano nei lunghi fondovalle compresi tra le grandi catene montuose, sia pure separati da una serie di ardui valichi, e sul versante adriatico correvano a breve distanza dal litorale, da Rimini fino alla foce del Pescara, per risalire poi il corso di questo fiume e congiungersi con la via interna a Popoli, e di qui proseguire unitariamente per Sulmona, Castel di Sangro, Isernia, Venafro, Capua, fino a Napoli (avendo sfiorato anche Montecassino).

L’area di incrocio di questi itinerari era inconfondibilmente l’Abruzzo e si comprende perché questa regione potesse dare anche nome all’intero sistema viario che in essa aveva il punto nevralgico. In molte cronache e altri documenti dei secoli passati ricorre infatti come ovvia, per l’itinerario seguito o da seguire da chi viaggiava, l’indicazione «per la via degli Abruzzi» o altra simile.
A sostegno di quanto detto fin qui si può mettere insieme una lunghissima serie di singoli eventi, ben certi almeno per le epoche dal basso medioevo all’Unità d’Italia: movimenti di eserciti, missioni diplomatiche, cortei nuziali, carovane di mercanti, viaggi di artisti, religiosi, podestà. Ne segnalo qui solo alcuni più significativi.
Per l’età angioina, spicca la vicenda di Celestino V, la cui ascesa al papato, proclamato a Perugia il 5 luglio 1294, si compì nell’agosto successivo con l’intervento di Carlo II d’Angiò e con il suo viaggio, in compagnia dell’eremita e di un foltissimo seguito, da Sulmona a L’Aquila a Napoli. Varie volte Boccaccio in persona, nel suo peregrinare tra Firenze e Napoli, passò da Sulmona e vi strinse amicizia con una cerchia di preumanisti che erano anche in contatto con Petrarca residente ad Arquà. Non è un caso se la prima copia del Decameron si segnala (nel 1360) tra le mani dei mercanti Acciaioli che facevano sosta a L’Aquila e a Sulmona, città che pullulavano di sedi anche dei Bardi, dei Peruzzi, degli Scali, degli Alberti, dei Bonaccorsi, degli Strozzi, ecc., stretti da legami con intraprendenti mercanti locali. Citiamo ancora Boccaccio narratore, quando a personaggi del suo Filocolo fa compiere viaggi che toccano «le fredde montagne, fra le quali Sulmona uberissima di chiare onde dimora» e L’Aquila, la città «ove l’uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica mano si dovea ancora portare in insegna» (V, 32; in III, 33 altra descrizione dello stesso itinerario, con particolare esaltazione della patria di Ovidio, è in III, 33).

Per il Quattrocento si ricordano, oltre ai numerosi passaggi di eserciti e di cortei principeschi (come quello degli accompagnatori di Ippolita Sforza che tornarono da Napoli a Milano nel novembre del 1465), i viaggi di San Bernardino da Siena a Napoli (con passaggio da Roccaraso) e la sua tappa finale a L’Aquila (dove morì il 20 maggio 1444).

Per il Cinquecento, sappiamo delle comitive che su questa strada riconducevano a Napoli Isabella d’Aragona, duchessa di Milano, nel 1500, e Beatrice d’Aragona, moglie ripudiata di Mattia Corvino, re d’Ungheria, nel 1501; dei movimenti di eserciti, con truppe francesi e tedesche negli anni 1528 e 1529; di un viaggio di Torquato Tasso da Ferrara a Sorrento nel 1578, compiuto per «la strada de Abruzzo, in pessima stagione, senza compagnia, con tutti i disagi e con molti pericoli», come ricordava in una sua lettera, un’esperienza legata anche all’ospitalità dei conti Cantelmo, a Popoli, e dei conti Belprato, ad Anversa, e riecheggiata in alcuni versi della sua Gerusalemme Conquistata (l. 1, 93, vv. 5-8).

I moti rivoluzionari della fine del Settecento, gli anni del Regno murattiano e poi i primi moti risorgimentali del 1820 e 1821 riportarono grandi movimenti di truppe – francesi, napoletane repubblicane, borboniche, napoleoniche, austriache, di estrazione popolare abruzzese – sulle solite direttrici di penetrazione o di controllo del Regno sulle vie dell’Abruzzo. Finché proprio questi tracciati entrarono nello scenario della fase conclusiva delle campagne risorgimentali.
Vinti gli Austriaci in Lombardia nel 1859, ottenuta l’adesione dell’Emilia-Romagna e della Toscana, occupata l’Umbria e le Marche, ribellatesi al potere pontificio, l’esercito piemontese era entrato ad Ancona il 29 settembre 1860. Il re Vittorio Emanuele II nei primi di ottobre era in questa città, in attesa che evolvesse positivamente la situazione più a Sud: con il consolidamento di Garibaldi a Napoli, un pronunciamento favorevole alla causa liberal-monarchica e un tamponamento della spinta repubblicana in Abruzzo e Molise. Quel pronunciamento, promosso vivacemente dai liberali abruzzesi (guidati dal grande scienziato Salvatore Tommasi e dai fratelli Bertrando e Silvio Spaventa), avvenne ai primi di ottobre e l’esercito sabaudo dalle Marche si mosse verso l’Abruzzo, sulle tradizionali due vie di accesso: con il grosso della truppa lungo la costa adriatica e una colonna minore attraverso i valichi a nord dell’Aquila. Il re varcò lo storico confine del Tronto il 15 ottobre, il 16 era a Giulianova e la sera a Castellammare, sulla sponda sinistra del Pescara; il 17 mattina, alle 8, attraversò anche questo fiume ed entrò nella fortezza della cittadina, già da qualche giorno espugnata ai borbonici dalla Guardia nazionale comandata dai liberali abruzzesi. Il 18 era a Chieti, il 19 sera a Popoli, il 20 a Sulmona, il 21 a Castel di Sangro, dove ricevette già le prime notizie dell’andamento dei plebisciti di adesione delle province meridionali. I reparti avanzati, guidati dal generale Cialdini, stavano intanto ingaggiando e vincendo sulle montagne d’Isernia (sul monte Macerone) l’ultima battaglia del nostro Risorgimento (in attesa della campagna per il Veneto, del ’66, e della conquista di Roma nel ’70). Si aprì così, su quest’ultimo tratto della “Via degli Abruzzi” tra Molise e Campania, il varco per il celebratissimo incontro cosiddetto di Teano (in realtà in territorio di Caianello) del 26 ottobre, tra il Savoia e Garibaldi.
Ma ancora altro peso della storia risorgimentale sarebbe spettato alla nostra via: nel novembre successivo, fuggendo da Napoli, con mandato di cattura per la manifesta avversione alla soluzione monarchica, Giuseppe Mazzini raggiunse L’Aquila, dove fu alloggiato dal suo fraterno amico Pietro Marrelli, avviandosi così all’espatrio verso Lugano e poi Londra. Negli ultimi giorni dell’anno ripassò per Sulmona e Pescara il re Vittorio, diretto in Piemonte.

Con la raggiunta Unità d’Italia, alla storia delle strade subentrava quella delle ferrovie. All’antico itinerario emiliano-adriatico che da Bologna si spingeva fino a Pescara e oltre, si era affiancata subito la ferrovia litoranea adriatica che il 13 maggio 1863 da Ancona raggiungeva già Pescara e il 15 settembre Ortona; nel 1870 i binari raggiunsero addirittura Otranto. Verso l’interno, nel 1873 Pescara venne collegata con Sulmona; che a sua volta nel ‘75 fu allacciata con L’Aquila e poi con Terni, nel 1888 con Roma, nel 1897 con Isernia, già collegata con Napoli. L’Abruzzo era di nuovo un crocevia di linee, che ricalcavano in sostanza l’antica rete degli assi portanti, con in più il forte collegamento tra Roma e l’Adriatico, ben più significativo, con il nuovo potente mezzo di locomozione e con capolinea la capitale d’Italia e l’esordiente Pescara, di quanto fosse stata l’antica Tiburtina-Valeria-Claudia. Ma tutto stava cambiando nelle correnti di traffico, non solo perché Roma era rientrata pienamente nel contesto della vita italiana, ma perché l’economia tradizionale e l’assetto sociale dell’intero Abruzzo venivano sconvolti dalle tendenze evolutive della modernità, che si affermava con la formazione del nuovo Stato.

Non ho voluto interrompere il filo della narrazione degli eventi esterni, evocandoli di secolo in secolo quasi come si sarebbero osservati mettendosi ai bordi delle strade, lasciando indietro l’indicazione degli effetti che quegli eventi producevano nel tessuto sociale e urbano e nella vita culturale delle nostre città e dei nostri paesi. Ne tratto ora prendendo solo qualche esempio da L’Aquila e Sulmona e loro territori e velocemente da altre località.
È un dato di prima grandezza il fatto che il poeta aquilano Buccio di Ranallo (1290/95-1363), cantore delle origini della città e delle fiere imprese dei suoi concittadini, nei suoi componimenti (che si datano dal 1330 in poi) echeggi più volte versi della Commedia dantesca. Sono molti i pittori e scultori aquilani del Quattrocento (cito solo Andrea dell’Aquila, Silvestro di Giacomo, sulmonese di origine, Saturnino Gatti, Cola dell’Amatrice) le cui opere riflettono pienamente gli ambienti della grande arte toscana e umbra. Si deve certo ai commerci del prezioso zafferano, che collegavano stabilmente L’Aquila con Venezia (e anche direttamente con la Germania), se nel 1481 alcuni aquilani fecero società con un allievo diretto di Gutenberg, Adamo di Rottweil, che aveva operato fino ad allora a Venezia e da quell’anno si trasferì nella loro città e vi introdusse l’arte della stampa. Nel 1579 la Baronia di Carapelle, che comprendeva vari comuni a Sud del capoluogo, passò in mano a Francesco I de’ Medici, Granduca di Toscana: fino al 1743 questo territorio fu una base dei commerci della lana gestiti dalla famiglia granducale, il cui stemma è ancora visibile su una delle porte della cinta muraria di Santo Stefano di Sessanio.

Se molto intensa era stata, dalla fine del Duecento al pieno Quattrocento, l’influenza toscana e umbra su L’Aquila e il suo territorio (attraverso il braccio appenninico direttamente orientato verso quelle regioni), nonché, come abbiamo già visto, su Sulmona, non meno profonda e prolungata fu, nei tre secoli successivi, l’influenza specifica delle regioni settentrionali sull’Abruzzo meridionale e costiero, attraverso l’immissione di una folta componente di maestranze “lombarde” portatrici di tecniche raffinate nell’edilizia e nelle attività connesse: lavorazione della pietra, dei marmi, del legno, del ferro battuto.
A Sulmona un Mastro Petri da Como firmò un portale del palazzo Tabassi nel 1449; nel 1478 viveva in città un Simone architetto veneziano, che forse edificò, sei anni dopo, il palazzo del Maestro Giovanni dalle Palle Viniziano di Sermona; nel 1508 la natio dei maestri lombardi residenti a Sulmona fondò una propria cappella nella chiesa di San Francesco (e i loro discendenti la restaurarono nel 1709); nel 1710 Pietro Fantoni milanese progettò la ricostruzione della chiesa dell’Annunziata. Il caso di massima concentrazione di questa influenza ci è offerto da Pescocostanzo, dove dalla metà del Cinquecento alla prima metà del Settecento si ebbe una piena fioritura di tutte le arti dell’edilizia e dell’arredo urbano, e dove addirittura fu introdotto il battesimo di rito ambrosiano (per immersione), tuttora praticato, e alcune famiglie di muratori hanno conservato fino agli anni più recenti l’uso di un gergo di mestiere detto lingua lombardesca, che trova riscontro nei gerghi analoghi delle valli alpine dal Comasco al Bergamasco. Non è un caso se lo stesso gergo è affiorato tra i muratori di Vasto, situata sul ramo costiero della “Via degli Abruzzi” e in stretto contatto con Milano quando uno dei D’Avalos, marchesi della cittadina abruzzese, divenne capitano di Carlo V in Lombardia. A Pescocostanzo nel 1555 insegnava “grammatica” (latina o volgare?) un Giovanni Maria veneziano e, a metà del Seicento, operava un non identificato pittore veneto di nome Diodato. Nel 1614 vi giunse, commissionata da una ricca pescolana, una grande tela del caravaggesco Tanzio da Varallo.

Anche altri centri della regione abruzzese furono poli di attrazione di correnti esterne di provenienza centrale o settentrionale. Fin dall’inizio del Trecento Lanciano, prossima al ramo costiero della «Via degli Abruzzi» e ai porti di Ortona e Vasto, era luogo di fiere a cui affluivano mercanti da tutta l’Italia, dall’altra sponda dell’Adriatico e da altri Paesi d’Europa: le sue fiere duravano per più mesi, tanto che a Firenze era diffuso il detto, rivolto a persona lenta nelle sue azioni, «Tu non faresti a tempo alla fiera a Lanciano, che dura un anno e tre dì» (riportato nel Vocabolario delle Crusca, già nell’edizione del 1612, s.v. fiera). Sul versante opposto, nella Marsica, si faceva sentire anche l’influenza di Roma e, mediata da questa città, ancora quella di alcuni centri toscani. La Contea di Celano appartenne ai senesi Piccolomini dal 1463 al 1591; Tagliacozzo, centro ben noto a Dante per la storica battaglia (1268) che decise il prevalere del dominio francese (angioino) su quello tedesco (svevo) nell’Italia meridionale e rafforzò per secoli il potere papale in Italia, sotto il dominio degli Orsini vide, nel Quattrocento, realizzarsi un ricco patrimonio d’arte.
Ho mirato a rendere evidenti piuttosto le correnti “discendenti” dal Centro e dal Nord verso l’Abruzzo, perché è certamente questo il dato ignoto ai più. Ma non vanno affatto dimenticate le correnti che percorsero lo stesso tracciato provenendo dal Sud: intendo qui, chiaramente, da Napoli, luogo secolare di formazione della massa dei professionisti e dei veri e propri intellettuali abruzzesi (da Marino da Caramanico e Luca da Penne agli Spaventa, a Tommasi e a Benedetto Croce); ma anche, nell’età barocca, centro di irradiazione di modelli artistici soprattutto nell’architettura (dominata dal bergamasco-napoletano Cosimo Fanzago), con importanti episodi anche nel campo della pittura (Stanzione; Solimena). Per non parlare della letteratura, della pittura e della musica dell’Ottocento. Si dà per risaputo che l’Abruzzo abbia avuto un continuo e fortissimo dare e avere sociale e culturale con l’antica capitale del Regno, ma si finisce per dimenticare la funzione che ha avuto, fino a tutto il secolo XIX, quel battuto e ribattuto asse stradale. Percorso fino all’ultimo, in ostinata concorrenza con il vapore, dalla famosissima diligenza dei Fiocca, sulla quale montavano schiere di studenti avviati allo Studio di Napoli, che con lo stesso mezzo tornavano addottorati nei loro Paesi.

Il quadro storico che si delinea percorrendo, lungo i secoli dal XIII al XIX, la storia delle comunicazioni della regione abruzzese con l’esterno mostra chiaramente che questa non era affatto una regione “isolata” nel contesto italiano, non solo per effetto della sua posizione geografica, di cerniera tra due grandi ambiti politico-economici, ma soprattutto perché alle sollecitazioni esterne, portate dai grandi assi stradali, la società locale rispondeva vivacemente: era detentrice di una sicura ricchezza (la produzione e il commercio della lana), che gestiva ampiamente in proprio, ed era capace di aggiornamento culturale e quindi anche di farsi conoscere al di fuori.
Chiunque voglia oggi riflettere sulle condizioni e le prospettive di vita dell’Abruzzo del nostro tempo e dell’immediato futuro dovrebbe prendere le mosse proprio da un confronto tra quel quadro e l’immagine che al presente la regione trasmette di sé al mondo esterno. Un’immagine che appare debole, per mancanza di rappresentazione proveniente dalla parte interna. (Un caso emblematico: nella cognizione generale degli abitanti del nostro Paese è pressoché assente la nozione, pochissimo elaborata dai soggetti interessati, dell’intera campagna di guerra che si svolse per nove mesi dal settembre 1943 al giugno 1944 lungo la Linea Gustav, che seminò immense distruzioni e stragi nell’Abruzzo meridionale). Eppure oggi una robusta rete autostradale, intrecciata con altri percorsi anche di alta prestazione, rende pienamente raggiungibile e conoscibile l’intera regione, con facilità nettamente superiore, in proporzione, a quella offerta per secoli dai vari bracci della gloriosa “Via degli Abruzzi”. I risultati però non sono comparabili e bisogna indagarne le cause. Le risorse odierne di tipo diffuso (legate ai valori dell’ambiente e del patrimonio culturale) non sono paragonabili a quella secolare della lana? O manca il concorso delle forze interne (chiaramente rarefatte) paragonabile a quello dei mercanti e artisti aquilani, sulmonesi e lancianesi del passato?

Francesco Sabatini

Leggi l’articolo “Sulle tracce della Lombardesca”.

Riferimenti bibliografici essenziali
Raffaele Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico. Carabba Editore, Lanciano 1977.
Paola Gasparinetti, La “via degli Abruzzi” e l’attività commerciale di Aquila e Sulmona nei secoli XII-XV, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di
Storia Patria”, LIV-LVI, 1964-1966, pp. 5-103.
Hidetoshi Hoshino, I rapporti economici tra l’Abruzzo aquilano e Firenze nel Basso Medioevo, Deputazione Abruzzese di Storia Patria, Studi e Testi, 11, L’Aquila, 1988.
Ezio Mattiocco e Giuseppe Papponetti (curr.) Sulmona, città d’arte e poeti, Pescara, Carsa, 1996.
ID. (cur.), Dal Tronto al Sangro. Una settimana in Abruzzo con Vittorio Emanuele II (ottobre 1860, Deputazione Abruzzese di Storia Patria e Università Sulmonese della Libera Età, L’Aquila, 2011.
Francesco Sabatini, La Regione degli Altipiani maggiori d’Abruzzo. Storia di Roccaraso e Pescocostanzo, Genova, Sigle Effe, 1960.
ID. (cur.), L’Aquila e la Provincia Aquilana. Economia, società e cultura nei primi sessant’anni di attività della Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila (1859- 1920), L’Aquila, 1992.
ID. (cur.), Pescocostanzo, città d’arte sugli Appennini, Pescara Carsa, 1997 (1a ediz. 1992).
ID., Abruzzo. Una civiltà diffusa e le sue capitali, in Guglielmo Ardito (cur.), Scanno. Storia di gente di montagna. Bisturi e tramonti sul lago, Pescara, ESA Edizioni Scientifiche Abruzzesi, 2004, pp. 19-60.